lunedì 22 ottobre 2012

Nathan Fake - Steam Days

La vera notizia di questo post è che la Border Community è ancora viva.

Salvo l'occasionale Luke Abbott, era praticamente dal 2007 ("You are here", guarda caso proprio di Natano Fittizio) che sull'etichetta di Holden non usciva niente di rilevante: gran botti negli anni precedenti, album di Fake e del capo di casa osannati da pubblico, critica, grandi e piccini, e poi cinque anni di silenzio creativo, interrotti giusto da qualche sporadica intervista del boss che dichiarava "sì boh io e Nathan ogni tanto vorremmo anche rimetterci a far qualcosa, però ci droghiamo troppo".

Nel mezzo, una carriera da superstar dj per Holden costruita facendo sempre lo stesso set e un album dimenticabilissimo, "Hard islands", per Fake, ma soprattutto una serie bella grossa di eredi, più o meno designati, che si sono incuneati nel solco tracciato da capolavori come "A break in the clouds" e "The sky was pink" e hanno proseguito lungo quella strada: Four tet e Caribou, ma anche il primo M83, sono i più evidenti, ma il numero di produttori che hanno fatto propria la nuova via un po' ambientosa un po' noisy un po' analog è bello nutrito.

Morale, la domanda sorge spontanea: c'è ancora spazio, nel duemiladodici che non è più il duemilasette, per Nathan Fake?

E com'è il Nathan Fake del duemiladodici?



Il Natano Fasullo del duemiladodici è, per forza di cose, diverso in alcune cose da quello di "Drowning in a sea of love", principalmente perchè tra allora e ora c'è stato di mezzo il dubstep.

Tracce che allora sarebbero state solo paddoni lontani che ti avvolgono da tutte le direzioni, come l'original mix di "The sky was pink", ora hanno in omaggio la bassata possente e la cassa sbilenca caratteristica delle tracce in cui Kieran Hebden, assieme a Burial, ha provato a essere "più Nathan Fake di Nathan Fake", con la differenza che a sto giro Fake non è un fake (perdonate il gioco di parole), ma è quello vero.

"Paean", la traccia d'apertura, ha cassa e basso con la metrica clamorosamente Burial&FourTet&Thom Yorke, ma il lead è il suo, quello che riconosci immediatamente come l'originale suono della Border community, ed è come tornare a casa dopo che sei stato via per tanto tempo e nel frattempo te l'hanno imbiancata e ti hanno messo dei mobili nuovi.

Forse proprio per via dei tanti epigoni di questi anni (che beninteso in molti casi sono anche validissimi di per sè: non parliamo di meri scopiazzamenti ma di autentiche rivisitazioni e prosecuzioni molto interessanti di un genere che era stato abbandonato dai suoi creatori) il nuovo Nathan Fake non suona come quello vecchio, e lo scostamento è evidente, ma non suona neanche come qualcosa di eccessivamente nuovo: la carica rivoluzionaria dei primi Border community non c'è più, ed era tutto sommato ovvio e prevedibile, ma bisogna ammettere che Natano è stato bravo a non fossilizzarsi su ciò che nel 2003 era incredibile e mai sentito e a cui ora ci siamo abituati.

Insomma, è un album di Nathan Fake e ha tutto quello che ti aspetteresti da un album di Nathan Fake, per cui i fan di vecchia data non resteranno delusi ("Rue", la traccia più simile allo stile "classico" e l'unica senza cassa, è un viaggionissimo da colonna sonora di un pianto struggente in Islanda), ma ci sono molte idee interessanti, dal terzinato di "Iceni strings" alla cassa dritta di "Neketona", che non sfigurerebbe in mezzo alle berghainate ma che ha ovviamente il tocco magico e ipnotico di casa Fake.

Bentornato, Natano: in tanti hanno provato a non far rimpiangere la tua assenza, e ci erano quasi riusciti, ma solo ora che sei di nuovo qui ci si rende conto di quanto mancassi.

(Se poi fai uscire dal torpore anche il tuo socio te ne siamo ulteriormente grati, eh)



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