venerdì 31 ottobre 2008

Body Language vol. 7, Mixed by Matthew Dear - recensione

Noi italiani siamo, storicamente, uno dei popoli più esterofili sulla faccia della terra: qualsiasi cosa venga da fuori pare meravigliosa vista da qui, mentre ciò che ha origine in Italia, o addirittura le stesse cose dei paesi esteri riportate qui risultano merda.

Basta dare un'occhiata, anche sommaria, a un qualsivoglia giornale per rendersene conto, ma non è di attualità che mi voglio occupare: tanto per cambiare, voglio analizzare la questione in ottica musicale.

La testimonianza più lampante di questo fenomeno tipico del belpaese è la leggenda metropolitana, mai confermata o smentita, che i dj stranieri suonino meglio all'estero che qui e che il clima nei club all'estero sia sempre migliore che qui (ok questa non è una leggenda metropolitana, è un dato di fatto incontrovertibile...buon halloween a tutti, a proposito), ma più in generale è innegabile che qui si tenda a scegliere un paese come esempio da seguire e a lamentarsi che qui le cose vanno peggio.

Spesso e volentieri l'esterofilia è del tutto immotivata, col risultato che i club italiani sono invasi di Fritz Kartoffeln qualunque che fanno un'ora di live noiosissimo con Ableton o di vecchi relitti della scena musicale estera che vengono direttamente ad abitare qui perchè ormai hanno date solo nei club italiani; perchè tutto ciò, ci si chiede?

La mia risposta personale è che a oggi, 31 ottobre 2008, in Italia tutto ciò che sta sotto l'enorme ombrello della "club culture" esiste ancora da troppo poco tempo per essere radicato nella cultura popolare ancora troppo ancorata ai tormentoni solecuoreammòre, mentre, effettivamente, in alcuni paesi stranieri in cui si valorizza molto il talento locale si parla di techno, di house e di club da un tempo sufficiente (e c'era una pop culture preesistente sufficientemente debole) da aver reso, di fatto, "pop" ciò che qui è "underground".

Per rendere popolare, nel senso etimologico del termine e non in quello spregiativo, un movimento culturale è ovvio che ci vogliano molti fattori diversi, oltre al tempo, ed è innegabile che nel paese in cui più di tutti la techno è "pop", la Germania, un ruolo importantissimo in questo processo l'abbia avuto la cricca della Get Physical.

Al di là del catalogo dell'etichetta, sempre di alto livello e sempre al passo coi tempi e in grado di evolversi, bisogna riconoscere ai Booka Shade il merito di aver trasformato un live techno in qualcosa di molto simile a un concerto "tradizionale" e, soprattutto, bisogna riconoscere a Dj T l'enorme lavoro di popolarizzazione della techno fatto con una rivista che qui in Italia ci sogniamo di notte, Groove, che qui non si è quasi mai sentita nominare perchè qui la gente presta più attenzione ai party col magico cubo di Rubik, ma che ha definito e reso popolari molti dei tratti distintivi di tutto ciò che ruota attorno alla techno, non solo musicalmente ma anche in termini di lifestyle, per la serie "quanto mi piace parlare come MTV".

Vista come etichetta pop, quindi, la Get Physical è veramente un'etichetta coi controcoglioni: l'integralista dell'underground la bolla come etichetta troppo commerciale per via di megahit come Heater di Samim o Body Language dei M.a.n.d.y. coi Booka Shade e per questo la schifa, ignorando che la realtà dei fatti è che i Booka Shade non vanno paragonati a Lory D o ad altri personaggi storici dell'underground italiano, ma a fenomeni della stessa portata pop tipo Giusy Ferreri e Gigi d'Alessio...e allora è uno dei casi in cui l'esterofilia è più che mai giustificata.

Se poi per mixare la propria compilation annuale Dj T e soci scelgono uno dei massimi geni del panorama techno mondiale, uno in grado di muoversi con disinvoltura tra la minimalaglia più becera da hit e l'underground più sperimentale come Matthew Dear, l'aspettativa è altissima come la possibilità di sorprese.



Cosa ci si può aspettare, infatti, da una compilation Get Physical mixata da Matthew Dear? Una serie di electracci coi peti scelti dall'alter ego tamarro di Matt, Audion? Un mixato di minimale jazzeggiante à la Jabberjaw o astratto e concettuale à la False? O ancora, quell'ibrido bislacco tra IDM e musica strumentale suonata dal vivo dell'ultimo album uscito come Matthew Dear?

La risposta, ovviamente, è "nessuna delle precedenti" :)

Il mixato di Matt Dear, infatti, è una splendida ora e un quarto di deep house lentissima e sexy che pare più una roba da aperitivo al tramonto sulla spiaggia che un mixato di uno dei padri della minimale su una delle etichette di spicco della storia della techno, roba che fatta da chiunque altro probabilmente avrebbe avuto un fortissimo sapore di trendfollowing e che invece, in questo caso, suona come "ok pischelli adesso va di moda la deep house e noi che siamo sempre comunque tra i migliori dj del globo vi facciamo vedere come si fa veramente".

Tra un Johnny D suonato col pitch pesantemente sotto zero, un paio di tracce esclusive della compilation, un paio di Dj Koze e un Kalabrese, quindi, il mood del mixato è di altissima classe e dimostra che si può mantenersi al passo con l'evoluzione del gusto musicale senza cadere nella moda ma anzi plasmandola col proprio gusto personale e la propria esperienza per ricavare un prodotto di qualità eccelsa che pur contenendo dischi ormai decisamente "pop" come Orbitalife di Johnny D risulta comunque spanne e spanne sopra i mixati di chi si limita a mettere in fila le hit.

L'esterofilia di per sè è un male, ma quando dall'estero arrivano lezioni pesanti come questa c'è solo da levarsi il cappello e ringraziare, ancora una volta, Dj T, i M.a.n.d.y., i Booka Shade per essere, ancora una volta, ottimi esempi di un pop di altissimo livello e Matthew Dear per il solito essere un uomo per tutte le stagioni, in grado di suonare praticamente qualsiasi cosa.

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