venerdì 16 maggio 2008

Fabric 39 - Robert Hood: la recensione

Finalmente iniziano a uscire tutti i mixcd per cui mi sono fomentato durissimo nel corso dell'inverno: dopo quello dei Whignomy bros. recensito ieri, finalmente ho avuto modo di sentire anche il Fabric nuovo, di Robert Hood, per cui avevo già iniziato a strapparmi i capelli in febbraio.

Nel corso dell'ultimo anno ho già avuto modo di dichiarare il mio rinnovato amore per le compilation del Fabric, che tra il 36 di Ricardo (miglior album del 2007 imho) e il 27 di Steve Bug hanno regalato veramente dei gran capolavori; il 38 dei M.a.n.d.y. è, almeno per me, l'eccezione che conferma la regola, ma probabilmente è per via della mia atavica repulsione per l'electro...magari nel suo genere è pure bellino, ma io dei due cugini preferisco ancora la compilation su At the controls.

Cmq, veniamo all'ultimo episodio, curato da una delle leggende di Detroit: dopo il trio di Belleville che ha inventato tutto, la seconda generazione di produttori includeva, oltre a mezze seghe del calibro di Jeff Mills e gli UR, anche quello che può essere considerato a buon diritto l'inventore del sottogenere minimale, Rob Hood appunto.

Quando ancora Richie Hawtin era l'inglese bianco trasferito in Canada che voleva fare amicizia con la scena nera di Detroit, il primo a cercare di creare musica sottraendo anzichè aggiungendo fu proprio Hood: il risultato che caratterizza i suoi set, quindi, è una versione ridotta ai minimi termini dell'ibrido tra funk ed elettronica che è la techno per come è stata concepita.

L'influenza funk è ancora fortissima come i tutti i Detroiti vecchia scuola, ma data l'impronta sottrattiva e la necessità di muovere comunque i dancefloor il focus sulla parte percussiva è molto più accentuato rispetto tipo agli UR, a Carl Craig o a May e Saunderson, come pure il numero di bpm, bello sostenuto.

In sostanza, rispetto a un Craig o a un Saunderson che mostrano orgogliosi le proprie influenze house, Hood è molto più purista nel suo essere techno: niente gayezza quindi, le uniche aperture ammesse sono verso le influenze latine e funk, che comunque si fanno sentire, ma il look and feel generale è comunque molto asciutto, senza cantati, piani, violini o altri fronzoli che tanto piacciono alle donzelle ma che renderebbero il tutto troppo frivolo per Roberto Cappuccio.

Nel corso dell'ultimo anno ho sentito Hood due volte, al the Beach a Torino per storie di Iamfromdetroit e all'Awakenings, per cui posso dire con un buon grado di certezza che la tracklist del mixcd rispecchia molto fedelmente i suoi set, splendidi nel riuscire a mantenere una coerenza interna impeccabile eppure in grado di dare all'ascoltatore una sensazione di gran varietà, alternando tracce chiusissime e ripetitive ad altre estremamente solari e funkettissime (tipo la sua "The great dancer", con lo stesso giro di chitarrina di "Gettin' jiggy with it" di Will Smith, che suonata in mezzo ai missili come fa lui crea veramente scompiglio) il tutto senza soluzione di continuità.

Proprio per via di questa gran varietà, quindi, Hood riesce a non stufare pur non risparmiandosi le legnate: se non si fosse capito di recente, forse per vecchiaia o per qualche strano meccanismo di evoluzione personale, mal sopporto i pestoni senza senso, ma set come questi o come il live di The Advent, da cui non sai mai cosa aspettarti ma sai che sicuramente sarà musica di altissimo spessore, mi riavvicinano alle mie origini techno.

Morale, play.com mi ha alleggerito di altri 15 euro, spedizione inclusa.

Avere un repertorio così vasto a disposizione a un prezzo così buono è veramente una tortura per il portafoglio, soprattutto quando escono a raffica cd così belli.

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